Le piccole perfezioni

Il tavolo della cucina era impiastricciato di farina, albumi e cioccolato semisciolto; i primi biscotti si doravano nel forno e noi impastavamo alacremente. Forse canticchiavamo, forse qualcuno aveva detto che ci voleva un po’ di musica, non ricordo esattamente da dove era partita l’idea, ma a un certo punto ci siamo ritrovati a improvvisare un concertino per chitarra scordata e pentole. Stavo ai fornelli, mescolavo la cioccolata, eravamo almeno una decina e il campanello continuava a suonare, gli amici continuavano a entrare. Dopo poco saremmo usciti, saremmo andati a una festa di Halloween, il mio umore sarebbe cambiato nel giro di un saluto un po’ troppo freddo e mi sarei ritrovata a piangere seduta per terra, sotto un portico, le spalle nude contro una serranda abbassata. Ma non è per questa strada che voglio avventurarmi: voglio fermare l’attimo precedente, quello in cui il profumo della pastafrolla riempiva la cucina di casa mia, e noi cantavamo, e le mani colpivano le pentole, ritmicamente, marcavano le nostre parole, ed eravamo tanti, ed eravamo pure parecchio belli, quella sera là.

La biblioteca era immersa nel brusìo delle confidenze tra vicini di tavolo, nel fruscìo dei fogli, nel grattare delle penne, nei passi affrettati e nel ticchettìo delle tastiere dei pc, e all’improvviso, su questo che non era silenzio, si levava nitido il suono dei flauti, e dei clarinetti e poi degli ottoni dal conservatorio di fianco, e in quel momento, alzando la testa dal libro e seguendo quella musica regalata inaspettatamente, mi sentivo bene. In seguito in quella biblioteca mi sarei accartocciata al mio posto, cercando di isolare ogni elemento esterno, cercando di mantenere dentro di me tutti i pezzetti importanti che stavo perdendo, cercando di non piangere, di non farmi prendere dall’ansia. Eppure, quando ora con la mente ritorno a quei giorni, un’altra vita, che sembra ancora così accessibile, e invece, non ripenso al dolore che mi si asserragliava nel petto, ma risento i flauti, e i clarinetti e poi gli ottoni.

Una sera, che già non c’eri più, eravamo andati in quel pub sull’Appennino dove finiamo sempre per mangiare troppo, e poi stare male senza poter dormire, con i crampi allo stomaco e la sete bastarda, ma continuiamo a tornarci perché le patatine sono buone come nient’altro mai, e c’è la salsa al whiskey e i capelli odorano di fritto però stiamo in allegria tutto il tempo, nel solito tavolo in fondo alla sala; quella sera eravamo in pochi, e mi ricordo ora che tu non c’eri più, ma mentre nella notte ridiscendevamo verso la pianura non è la profonda tristezza di quei giorni che mi accompagna, ma le curve dolci, e il buio, e gli amici che pian piano smettono di parlare e iniziano a mormorare, e il sonno tiepido che avanza mentre in radio passa Battiato.

Del liceo mi ritorna l’odore della palestra, lo stridìo delle scarpe da ginnastica sul pavimento e il rimbalzo del pallone, le pagine sottili della Divina Commedia commentata da Vittorio Sermonti (vai così, vecchio!, riportava una nota), la punta della matita che scivola distratta sul banco verdastro, le mani secche per il gesso, lo sguardo azzurro ghiaccio della professoressa fisso su di noi, immobili e terrorizzati, mentre mulinava la mano dentro il barattolo del pangrattato dove stavano i nostri numeri, e la pausa che faceva prima di leggere chi era stato sorteggiato; il freddo umido padano nelle ossa, la mattina alle otto, di corsa lungo la ciclabile con le mani in tasca e lo zaino che rimbalza sulla schiena, le file di gnocchini unti esposti a ricreazione dal merendero, che faceva un po’ il viscido con noi ragazzine, ma ci dividevamo in due fazioni, chi era lusingata e chi pensava solo alla pizza, e non ci sono mai stati problemi. Il sacchetto con il vocabolario di greco, i caloriferi che sputavano polvere, le prime margherite in cortile che annunciavano la primavera, la fine del quadrimestre e le interrogazioni a tappeto. Dell’università ricordo il sapore denso e dolciastro della crema di latte dentro le paste dal bar di fronte, che sembrava talvolta la stessimo mangiando direttamente dalla pentola, con il cucchiaio in legno, come quando ero piccola e mia nonna faceva il budino; le classi dal soffitto ampio dove rimbalzavano i nostri scherzi, i nostri errori durante gli esami, i nostri bisbiglii e tutte le lacrime che ho versato in Aula B, perché se non ho battezzato un mio luogo con un sano pianto almeno una volta non posso dire che mi appartenga completamente.

Ma anche qui, la tristezza è l’ultima cosa a cui voglio pensare, ora che vedo lucidamente la realtà, ora che so che non siamo semplicemente scrigni di meraviglie e unicorni scintillanti, ma siamo fatti di carne, e spesso egoismo, e spesso crudeltà, che poi va anche bene così, a pensarci, fa solo un po’ più male, e allora voglio tenermi stretti i momenti che mi hanno fatto sorridere, che mi hanno scaldato il cuore, che ogni volta che riaffiorano risuonano potenti nella testa e mi fanno venir voglia di cantare, voglio sentire le mani che colpiscono le pentole e la chitarra scordata che insegue le nostri voci. Voglio una collana di piccole perfezioni infilate come perle da indossare per essere bella come allora.

 

L’ultimo esame

Il giorno del mio ultimo esame mi sono messa un vestito bello.

Da quel lontano pomeriggio di gennaio del duemilaeundici, quando mi ero presentata all’appello di diritto romano con una felpa dell’università di Oxford, che mi stava pure piccola, e i capelli acconciati malamente, che avevo fatto nottata a ripassare “Ti darò cento se la nave verrà dall’Asia”, avevo imparato la lezione: agli esami bisognava andarci in ordine. In ordine, ma con quel punto di pallore sulle guance che faceva intuire al professore che avevi passato le giornate sotto la la luce bianca della biblioteca.

Quindi: il giorno del mio ultimo esame, che era uno splendente giorno di metà giugno, mi sono messa un vestito bello, e un filo di mascara, e sono andata quasi saltellando in università.

Avevo un libretto da fare invidia, avevo un libretto che non avrebbe mai fatto capire a nessuno quanto erano stati personalmente difficili quei cinque anni, quante volte avevo pianto in pubblico, quante volte mi ero sentita infinitamente piccola, e inutile. Avevo un libretto che raccontava la storia di una ragazza brillante e determinata, che con il suo eloquio lasciava a bocca aperta i docenti. Poco importava che non fosse veramente la mia storia.

Non so cos’è che è andato storto, il giorno del mio ultimo esame. Indossavo un vestito bello, un filo di mascara; la mia amica Nina, con cui avevo condiviso telematiche maratone notturne e angosce e gioie e angoscie di nuovo, che quelle non finiscono mai, era lì al mio fianco, forte come sempre. Per una volta, avevo finito il programma di studio in tempo. Quindi io davvero non so cos’è che è andato storto, forse non ero preparata come credevo, l’assistente forse mi aveva preso di punta, il professore non mi ha fatto un’ultima domanda che magari avrebbe sollevato il voto. Mi sono alzata, ingoiando le lacrime, sono corsa fuori dall’aula e ho strappato il libro su cui avevo studiato. Ho sparpagliato i fogli per quattro cestini della spazzatura diversi, come se stessi mandando affanculo la mia carriera universitaria da nord, sud, ovest ed est. Ed è venuta fuori, la me che si nascondeva dietro una lunga lista di bei voti: è venuta fuori la me che piangeva in pubblico, la me peggiore di tutte.

Il voto, il più basso che avessi mai visto, l’ho accettato; non avevo molte altre scelte. Ma non era quella la sconfitta, la sconfitta era aver lasciato che una mia stupida reazione mi definisse di nuovo: ehi, quella con il vestito bello sta piangendo ancora.

Si trattava solo di un accidenti di voto. Non ero io, non era la mia storia, anche se era quella che avrei voluto raccontare di me; era un accidenti di voto. E adesso me lo ricordo solo io, quel giorno là. E adesso, che ho sfogliato i mesi dell’estate e dell’autunno fino ad arrivare ad oggi, oggi che è una nuova stagione, una nuova vita, una nuova città, quel piccolo insignificante episodio mi serve solo per rileggere un capitolo finito, e non valeva i pomeriggi passati a piangere, le strisce nere sulle guance del mascara leggero che avevo messo, e il vestito bello era uno splendido guscio per un niente.

Il giorno del mio ultimo esame è stato un giorno come gli altri, e avrei voluto capirlo già allora.

Altre vite inventerò

Una sera – allora vivevo in Germania – il mio coinquilino brasiliano mi portò fuori a bere qualcosa, con la scusa che era il mio ultimo sabato in quella città. Tra una caipirinha e l’altra, G. aveva iniziato a fare della psicologia spiccia e mi aveva detto: << I think you are a good girl who does everything other people expect her to do>>.
Non è una gran frase da dire se ci stai provando con una ragazza, ma dal momento che non aveva nessuna speranza già in partenza mi limitai ad offendermi. Perché pur non conoscendomi un granché, aveva indovinato. Ero sempre stata la brava bambina con la testa sulle spalle, che aveva sempre fatto le scelte socialmente giuste: liceo classico, poi Giurisprudenza per diventare un avvocato, un buon mestiere, sai quanti giovani non riescono a trovare lavoro? Non sono mai stata forzata in questo percorso: sono tutte cose decise da me, e guarda caso coincidevano con quello che la gente si aspettava da me. Non mi sono mai pentita per un secondo del liceo classico: tutte le volte che qualcuno lo attacca violentemente, dicendo che sta morendo, a me viene da rispondere, con la mia dialettica vincente: <<Morite voi>>.
Ho studiato Giurisprudenza proprio per imparare ad argomentare così.

Ricordo di aver pensato, sarò stata alle elementari, alle medie, che non sarebbe stato male fare l’avvocato. Però.

Quando avevo cinque sei anni e mia mamma aveva le riunioni al pomeriggio e mi portava a scuola con sé io me ne stavo tranquilla in sala insegnanti davanti a fogli grandi come federe di un cuscino, con due file di buchi ai lati che si potevano staccare lungo la linea tratteggiata, e disegnavo, disegnavo malissimo, perché non sono mai stata un’artista e infatti non erano opere fini a se stesse, ma erano illustrazioni per il libro che stavo scrivendo.
Qualcuno mi aveva chiesto: <<Perché stai scrivendo un libro?>> e avevo risposto: <<Perché così quando finisco di leggere quelli che ho già posso leggere i miei e non rimango senza>>.
Non ho mai finito di scrivere qualcosa, ma per fortuna non sono mai nemmeno rimasta senza libri.

Anche se a volte pensavo che non sarebbe stato male fare l’avvocato, per tutte le elementari a chi mi faceva la fatidica domanda Madagrandeblablabla io dicevo: <<Voglio fare la giornalista, girare il mondo e andare a letto tardissimo perché devo chiudere il numero e andare in stampa>>.

Ogni Natale obbligavo mia cugina e mia sorella a mettere in scena degli spettacoli a uso e consumo dei nostri pazienti famigliari, da me scritti diretti e interpretati. Di tutte le passioni che compongono l’anima di me bambina, e che mi hanno costruito in questi ventitré anni di vita, quella per il mondo dello spettacolo è stata la più coltivata: il ricordo più felice del mio ultimo anni di liceo sono le serate con la mia amica F. a scrivere il copione per il nostro gruppo di teatro. Tazze di tè, pettegolezzi su Jane Austen, a una battuta seguiva l’altra, e le scene si componevano da sole.

Mi sono laureata in Giurisprudenza, e ne sono immensamente felice. Sono uscita dalla mia comfort zone, ho imparato a maneggiare un nuovo tipo di linguaggio, ho conosciuto persone preziose. E chissà che, prima o poi, non finisca davvero per mettermi un tailleur pantalone e non mi ritrovi a fare pratica in un qualche studio. Ma adesso, in questo preciso instante in cui non sono più un’universitaria e non sono una lavoratrice, in questo momento di sospensione tra il mio passato di bambina divoratrice di libri adolescente silenziosa studentessa occhialuta e la vita che sarà fatta di aspirapolveri da acquistare, contratti da firmare, io proprio qui mi sono creata un vuoto.
Ho messo in pausa quella che dovevo essere. Mi sono trasferita in un’altra città, in una via che senza saperlo avevo già scelto anni e anni fa.

Ho passato la vita a inventarmi mie altre vite: scrittrice miliardaria, giornalista cazzuta e indipendente, star di Hollywood, avvocato quasi mai in tribunale ma sempre sul divano con un libro in mano e una perfetta famiglia composta da un marito affascinante e due o tre bambini biondi i cui nomi erano stati accuratamente scelti tra i personaggi delle mie letture preferite – figlia che un giorno forse avrò: per un certo periodo, hai rischiato di chiamarti Lalage – e così via.
Ho abitato in Place des Vosges insieme a un poeta: là deliziavo i nostri amici francesi con il mio pollo al curry, compravo specchi e lampade d’epoca al mercato delle pulci e d’estate giravamo per i meleti della Normandia; indossavo spesso camicie bianche e jeans vintage. I nostri figli parlavano perfettamente l’italiano e il francese.
Ho avuto una villa country chic ad Hampstead, là portavo a spasso i cani al parco e poi mi fermavo in un pub a bere una pinta di London Pride mentre aspettavo che il mio compagno, rampante barrister, mi raggiungesse: eravamo arrivati insieme dall’Italia, io ero fissata con l’Inghilterra e lui mi aveva seguito senza fiatare – io allora scrivevo e basta, ma l’avevo aiutato a preparare l’esame di stato, che qualcosa me lo ricordavo, e lui mi chiedeva i pareri sulle cause che stava seguendo, come fossimo ancora studenti. Ce la siamo spassata alla grande, abbiamo visitato l’India, affittato un appartamento a Edimburgo e persino conosciuto la Regina.

Venerdì ventisei giugno sono uscita nella notte che diventava bianca per prendere un autobus per Bologna, e poi da lì salire su un treno per la città dove vivo ora. Dovevo sostenere un test d’ammissione e non l’avevo detto a nessuno, perché era una cosa pazza, una deviazione dal mio percorso standard, era una mossa che avrebbe fatto il mio alter ego, quello che vive a Londra e agisce senza farsi complessi o paranoie: avevo finito gli esami, scrivevo la tesi, non potevo cambiare le carte in tavola quando ce l’avevo quasi fatta. L’autobus viaggiava incontro al sole che sorgeva e io stringevo emozionata lo zainetto: i miei amici, la mia famiglia, non avevano idea che io fossi lì e non a dormire il giusto sonno dei laureandi a casa del mio amico A. come avevo lasciato detto. Nello zaino, la mia copia dell’ultimo romanzo di Bianca Pitzorno, a portarmi fortuna. Arrivata a Bologna alle 6.12, la tragica scoperta: il treno delle 6.18 era stato cancellato per sciopero.
Essendo comunque un’adulta avevo preso la situazione in mano e fatto l’unica cosa che mi pareva sensata in tale frangente: avevo iniziato a piangere disperatamente nel bel mezzo della stazione.
(Aggiungere Stazione Centrale di Bologna alla lista dei luoghi pubblici in cui ho frignato senza ritegno).
Con nessun altro mezzo sarei arrivata in tempo per il test: non era destino. Dovevo ascoltare i segnali, non era cosa per me.
E poi mi sono ribellata alla sfortuna che mi perseguita da sempre, che poi io le odio le persone arrendevoli che alzano gli occhi al cielo e si raggomitolano e pazienza è andata così (quanto odio pazienza è andata così) e il dieci luglio ci ho riprovato, e sono arrivata a destinazione, e ho sostenuto la prova. Per tutta la settimana seguente ho continuato la mia routine, biblioteca, tesi, già pensavo a iniziare la pratica da avvocato.

Venerdì 17 luglio (venerdì 17 venerdì’ 17 venerdì 17, “pazienza è andata così”, eh) ho saputo di avercela fatta; e ora, chissà se mai altre vite mi inventerò.

Un po’ troppi personaggi in cerca di un ruolo, ovvero: True Detective, stagione 2

[ATTENZIONE: se non avete ancora visto True Detective e contate di farlo in futuro, questo post non fa per voi, contiene spoiler]

Per un po’ sono riuscita a tenermi lontana dal fenomeno True Detective, mi stavo dedicando a imprese molto più complesse e articolate, ad esempio recuperare tutte e otto le stagioni di Scrubs in un paio di settimane. A un certo punto, però, non ho potuto più ignorare il richiamo potente dei cieli acquosi della Louisiana, e in qualche giorno ho divorato le otto puntate della prima stagione, giusto in tempo per l’arrivo della seconda, il 21 giugno. Non ho così dovuto patire a lungo l’attesa, ma so che i veri fan, quelli della prima ora, aspettavano la nuova fatica di Nic Pizzolatto come l’arrivo del Messia; non è facile mantenersi all’altezza delle aspettative dopo che Matthew McConaughey ha magnificamente biascicato nel suo accento texano varie teorie sui massimi sistemi, e lo squallore degli angoli più dimenticati d’America è entrato nelle nostre case con lo stesso fascino e magnetismo del mistero da risolvere; mistero che spesso passava in secondo piano per concentrarsi sulle dinamiche tra i due protagonisti, ma che comunque, con gli accenni ai riti satanici, a Carcoosa e al Re Giallo, era sufficientemente stuzzicante.

Sarebbe sbagliato confrontare la prima stagione con la seconda, dal momento che ci troviamo di fronte a una serie antologica, che ogni volta si riazzera e parte con nuove storie, nuovi personaggi, nuove terre perdute da riabilitare (forse). Sarebbe sbagliato perché Velcoro, Bezzerides e Woodrugh non sono nemmeno lontanamente imparentati con Cohle e Hart: guardando True Detective 2 noi sappiamo di star ancora una volta aprendo un pacco sorpresa. Sorpresa che, al di là quindi dello spettro della prima stagione, mi ha un po’ delusa.

Siamo in California, a Vinci, tristissimo sobborgo industriale più corrotto e violento di Caracas: tra gli altri, il poliziotto Raymond Velcoro (Colin Farrel) ha da diversi anni un felice sodalizio con l’ormai ex gangster Frank Semyon (Vince Vaughn), che è tipo il più figo del mondo e al suo confronto Colin Farrel sembra solo un mastro birraio particolarmente peloso che passava di lì. Frank vorrebbe ripulirsi ed entrare in un affare di cui io non ho capito letteralmente una parola, ma che chiamano Corridoio Ferroviario; il suo compare in quest’affare, il city manager Ben Caspere, viene trovato morto alla fine del primo episodio, e con lui sono spariti pure i soldi di Semyon. Il ritrovamento del cadavere di Caspere in una terra di nessuno fa sì che siano competenti tre diversi detective: il belloccio Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) – la cui storyline è stata il più delle volte un abuso del tempo degli spettatori, piena di spunti mai approfonditi (Black Mountain, le cicatrici sul suo corpo) -, il già citato Velcoro e Antigone Bezzerides (Rachel McAdams) detta Ani (principalmente dai mini riassunti su SKY) che ancora prima di avere un omicidio su cui indagare è già, per puro caso, sulle tracce di una ragazza che ha informazioni fondamentali per risolvere il futuro mistero. Mistero che sembrava intrigante: oscuro uomo politico rinvenuto senza testicoli e con gli occhi bruciati, un tizio inquietante con una maschera di uccello, dei collegamenti emersi non mi ricordo più come con una clinica privata e un istituto religioso dove – sempre per puro caso – vive il padre di Bezzerides, insomma, parliamo di ingredienti che stuzzicano la fantasia. Esoterismo? Un altro dio crudele adorato da una setta scomparsa da secoli che riemerge improvvisamente?

No. Ha tutto a che fare con il Corridoio Fucking Ferroviario (booooooring), dei diamanti saltati fuori anche qui non mi ricordo più come, un hard disk pieno di immagini compromettenti di miliardari e prostitute e qualcosa come duecentocinquanta tra sindaci, imprenditori, poliziotti e procuratori generali che, non scherzo, fino alla puntata sette (su otto) per me erano solo un nome vagamente sentito pronunciare da qualcuno: Holloway, Burris, Dixon, Geldof, McCandless; l’unico vagamente identificabile era Chessani, perché in un episodio l’hanno nominato tantissime volte declinato in tutti i possibili gradi famigliari. Mentre il magnifico trio non stringe una solida amicizia e si fa coinvolgere in una massiccia sparatoria, Frank cerca di rimettersi in piedi dopo la batosta dei cinque milioni spariti, gigioneggia rimanendo sempre cazzuto tra pasticceri mafiosi, baraccopoli messicane e casinò e piange la morte di Stan, avvenuta il secondo episodio, ma che soltanto due settimane fa ho capito essere totalmente un altro personaggio rispetto a chi pensavo fosse.

Verso la seconda metà della stagione le cose cambiano leggermente: i tre detective si ritrovano per indagare sul caso in segreto, sponsorizzati dall’ennesimo nome del dipartimento di polizia, di Ventura questa volta, tale Davis, e iniziano finalmente a scoprire qualcosa – peccato che abbia tutto a che fare con il Corridoio, i diamanti e l’hard disk, noia noia noia. I veri colpevoli poi sarebbero stati da premiare, in realtà. Più maschere d’uccelli, più sedie della tortura nei capanni in mezzo al bosco, meno business, e soprattutto meno personaggi tutti uguali, please. Io ho generalmente un’ottima memoria: ho visto tutte le stagioni di Game of Thrones senza troppi problemi nel ricordare le varie casate, le varie alleanze e i vari Ditocorto, Varys, Barristan Selmy e Cavalieri delle Cipolle; sono allenata da anni di saghe e serie televisive. Ma questa volta, è stato oltrepassato il limite: come faccio ad osservare bene la bravura degli attori – perché sono davvero incredibili, McAdams sopra tutti – e la commovente fotografia, la colonna sonora e certe sequenze costruite benissimo, se devo anche capire chi è questo Burris di cui parlano sempre, o perché dicono che Dixon è morto se io Dixon non credo di averlo mai visto in scena?

C’erano moltissime side story con del potenziale, che aspettavano solo di essere ben sceneggiate – perché senza dubbio la scrittura continua a essere un punto forte di True Detective – un fantastilione di occasioni mancate a partire dalla famiglia di Bezzerides, o dei Chessani; e la vicenda era talmente intricata e piena di ramificazioni che alla fine Ani nel raccontarla al giornalista ha bisogno di più di una definizione. E’ vero che anche qui il mistero da risolvere dovrebbe essere quasi un plus, il focus dell’attenzione sono i protagonisti, ma a parte gli splendidi coniugi Semyon, sempre nel mio cuore nonostante la fine da principiante che fanno fare a Frank, gli altri tre non hanno tutta questa alchimia: sono l’unica che all’accoppiata Velcoro – Bezzerides non ci ha mai creduto neanche per un secondo, anche se la si vedeva arrivare fin dall’inizio? Soprattutto mi ha fatto imbestialire il finale: Ani, la nostra eroina, improvvisamente tutta gnègnè, non salgo sulla nave se non vieni, assolutamente poco verosimile. La notte tra Velcoro e Bezzerides era una notte tra due disperati che si fanno un po’ di compagnia, e avrebbe avuto senso mantenerla così.
Anche se Baby Velcoro è di un puccioso quasi georgesco e non mi dispiacerebbe vedere un True Detective al femminile con solo Kelly Reilly e Rachel McAdams.

L’amore è una barretta di Cioccocremolato Delizia Wonka

Pensavo a quattordici quindici anni che l’amore dovesse essere potente e terribile, totale e anche un po’ distruttivo. Credevo in Catullo, Odi et Amo, credevo che il male ce lo si facesse perché ci si amava troppo, credevo in Romeo e Giulietta, credevo alle poesie, e credevo anche un po’ nelle frasi di Jim Morrison. Quindi: a qualsiasi proposizione un po’ imbellettata e convalidata da un qualche personaggio letterario o famoso o quant’altro, io ci credevo. Quindi: ero un’idiota.

A diciassette anni ero profondamente convinta che la base di ogni solida relazione fosse cementata solo da interessi comuni. In sostanza: se io amavo Woody Allen, Baudelaire, le canzoni dei Baustelle e Parigi, e lui pure amava Woody Allen, Baudelaire, le canzoni dei Baustelle e Parigi, allora per forza di cose, per semplice matematica, io e lui saremmo stati bene insieme, e saremmo stati schifosamente felici, e lui avrebbe suonato il pianoforte mentre io preparavo una torta Sacher – la sua preferita e guarda caso la mia ricetta migliore – e ci saremmo sostenuti a vicenda, non ci saremmo odiati, non ci saremmo fatti del male.

A diciannove anni non mi importava più del pianoforte e dei poeti maledetti, dell’essere come Simone De Beauvoir e Jean Paul Sartre, perché avevo realizzato una cosa strabiliante: si poteva amare qualcuno che non sapesse in quanti romanzi fosse divisa la Recherche di Proust, anzi!, era millemila volte meglio così. Hemingway, o qualcuno che si spacciava per lui, disse: Se non mi ami non importa, posso amare per entrambi, e io invece dissi pressapoco così: Se non sai cosa significhi pucciare una madeleine nel tè non importa, le posso mangiare tutte io. E non importava davvero, perché quello che contava era la complicità; non era niente che si potesse stabilire a priori, era l’odore, era l’affinità. Era la calma in mezzo all’ansia più totale, era la leggerezza e lo scherzo, era la sintonia.

Ed è davvero tutto qui, io non avevo capito quanto fosse rara, la sintonia. Se avessi voglia potrei fare l’etimologia greca, e farci notte; è un accordo di suoni, ha a che fare con la musica, con l’armonia. Se trovi qualcuno con cui sei in sintonia hai praticamente fatto un terno al lotto. Certo, ci sono altre cose fondamentali, per esempio se io dico C.R.E.P.A. e la persona davanti a me si offende, è chiaro che non siamo sulla stessa pagina, ma alla fine basta con le riviste che mi intasano la home  di consigli inutili per trovare l’anima gemella – che non esiste! arrendetevi! -, perché l’amore, che sia o no quello giusto, che sia o no basato sulle premesse corrette, è semplice e alla portata di tutti come una barretta di Cioccocremolato Delizia Wonka: da bambina me lo immaginavo proprio cosí, poi se veramente sei fortunato ci trovi pure il Biglietto d’Oro.

Perché in tutte le fasi sbalestrate della mia vita, su una cosa sono ancora convinta: per star bene con qualcuno questo qualcuno ci deve ricordare la nostra infanzia. Non deve per forza aver letto Bianca Pitzorno – gli uomini stolti la leggono poco – o J.K. Rowling – no, scherzavo, almeno zia J.K. sì, dai, come siete cresciuti altrimenti? – ma mi deve far sentire ogni singolo giorno come se fossi dentro alla Fabbrica di Cioccolato: un luogo scoppiettante e mirabolante con le barche di caramella e lo zucchero a velo ovunque, a cui sono stati ammessi in molti che non l’avrebbero meritato, ma che poi va in premio a quello giusto, a quello che ha saputo aspettare, senza cercare.

Ed è solo questione di caso, ed è solo questione di affinità.