Il tavolo della cucina era impiastricciato di farina, albumi e cioccolato semisciolto; i primi biscotti si doravano nel forno e noi impastavamo alacremente. Forse canticchiavamo, forse qualcuno aveva detto che ci voleva un po’ di musica, non ricordo esattamente da dove era partita l’idea, ma a un certo punto ci siamo ritrovati a improvvisare un concertino per chitarra scordata e pentole. Stavo ai fornelli, mescolavo la cioccolata, eravamo almeno una decina e il campanello continuava a suonare, gli amici continuavano a entrare. Dopo poco saremmo usciti, saremmo andati a una festa di Halloween, il mio umore sarebbe cambiato nel giro di un saluto un po’ troppo freddo e mi sarei ritrovata a piangere seduta per terra, sotto un portico, le spalle nude contro una serranda abbassata. Ma non è per questa strada che voglio avventurarmi: voglio fermare l’attimo precedente, quello in cui il profumo della pastafrolla riempiva la cucina di casa mia, e noi cantavamo, e le mani colpivano le pentole, ritmicamente, marcavano le nostre parole, ed eravamo tanti, ed eravamo pure parecchio belli, quella sera là.
La biblioteca era immersa nel brusìo delle confidenze tra vicini di tavolo, nel fruscìo dei fogli, nel grattare delle penne, nei passi affrettati e nel ticchettìo delle tastiere dei pc, e all’improvviso, su questo che non era silenzio, si levava nitido il suono dei flauti, e dei clarinetti e poi degli ottoni dal conservatorio di fianco, e in quel momento, alzando la testa dal libro e seguendo quella musica regalata inaspettatamente, mi sentivo bene. In seguito in quella biblioteca mi sarei accartocciata al mio posto, cercando di isolare ogni elemento esterno, cercando di mantenere dentro di me tutti i pezzetti importanti che stavo perdendo, cercando di non piangere, di non farmi prendere dall’ansia. Eppure, quando ora con la mente ritorno a quei giorni, un’altra vita, che sembra ancora così accessibile, e invece, non ripenso al dolore che mi si asserragliava nel petto, ma risento i flauti, e i clarinetti e poi gli ottoni.
Una sera, che già non c’eri più, eravamo andati in quel pub sull’Appennino dove finiamo sempre per mangiare troppo, e poi stare male senza poter dormire, con i crampi allo stomaco e la sete bastarda, ma continuiamo a tornarci perché le patatine sono buone come nient’altro mai, e c’è la salsa al whiskey e i capelli odorano di fritto però stiamo in allegria tutto il tempo, nel solito tavolo in fondo alla sala; quella sera eravamo in pochi, e mi ricordo ora che tu non c’eri più, ma mentre nella notte ridiscendevamo verso la pianura non è la profonda tristezza di quei giorni che mi accompagna, ma le curve dolci, e il buio, e gli amici che pian piano smettono di parlare e iniziano a mormorare, e il sonno tiepido che avanza mentre in radio passa Battiato.
Del liceo mi ritorna l’odore della palestra, lo stridìo delle scarpe da ginnastica sul pavimento e il rimbalzo del pallone, le pagine sottili della Divina Commedia commentata da Vittorio Sermonti (vai così, vecchio!, riportava una nota), la punta della matita che scivola distratta sul banco verdastro, le mani secche per il gesso, lo sguardo azzurro ghiaccio della professoressa fisso su di noi, immobili e terrorizzati, mentre mulinava la mano dentro il barattolo del pangrattato dove stavano i nostri numeri, e la pausa che faceva prima di leggere chi era stato sorteggiato; il freddo umido padano nelle ossa, la mattina alle otto, di corsa lungo la ciclabile con le mani in tasca e lo zaino che rimbalza sulla schiena, le file di gnocchini unti esposti a ricreazione dal merendero, che faceva un po’ il viscido con noi ragazzine, ma ci dividevamo in due fazioni, chi era lusingata e chi pensava solo alla pizza, e non ci sono mai stati problemi. Il sacchetto con il vocabolario di greco, i caloriferi che sputavano polvere, le prime margherite in cortile che annunciavano la primavera, la fine del quadrimestre e le interrogazioni a tappeto. Dell’università ricordo il sapore denso e dolciastro della crema di latte dentro le paste dal bar di fronte, che sembrava talvolta la stessimo mangiando direttamente dalla pentola, con il cucchiaio in legno, come quando ero piccola e mia nonna faceva il budino; le classi dal soffitto ampio dove rimbalzavano i nostri scherzi, i nostri errori durante gli esami, i nostri bisbiglii e tutte le lacrime che ho versato in Aula B, perché se non ho battezzato un mio luogo con un sano pianto almeno una volta non posso dire che mi appartenga completamente.
Ma anche qui, la tristezza è l’ultima cosa a cui voglio pensare, ora che vedo lucidamente la realtà, ora che so che non siamo semplicemente scrigni di meraviglie e unicorni scintillanti, ma siamo fatti di carne, e spesso egoismo, e spesso crudeltà, che poi va anche bene così, a pensarci, fa solo un po’ più male, e allora voglio tenermi stretti i momenti che mi hanno fatto sorridere, che mi hanno scaldato il cuore, che ogni volta che riaffiorano risuonano potenti nella testa e mi fanno venir voglia di cantare, voglio sentire le mani che colpiscono le pentole e la chitarra scordata che insegue le nostri voci. Voglio una collana di piccole perfezioni infilate come perle da indossare per essere bella come allora.