L’ultimo esame

Il giorno del mio ultimo esame mi sono messa un vestito bello.

Da quel lontano pomeriggio di gennaio del duemilaeundici, quando mi ero presentata all’appello di diritto romano con una felpa dell’università di Oxford, che mi stava pure piccola, e i capelli acconciati malamente, che avevo fatto nottata a ripassare “Ti darò cento se la nave verrà dall’Asia”, avevo imparato la lezione: agli esami bisognava andarci in ordine. In ordine, ma con quel punto di pallore sulle guance che faceva intuire al professore che avevi passato le giornate sotto la la luce bianca della biblioteca.

Quindi: il giorno del mio ultimo esame, che era uno splendente giorno di metà giugno, mi sono messa un vestito bello, e un filo di mascara, e sono andata quasi saltellando in università.

Avevo un libretto da fare invidia, avevo un libretto che non avrebbe mai fatto capire a nessuno quanto erano stati personalmente difficili quei cinque anni, quante volte avevo pianto in pubblico, quante volte mi ero sentita infinitamente piccola, e inutile. Avevo un libretto che raccontava la storia di una ragazza brillante e determinata, che con il suo eloquio lasciava a bocca aperta i docenti. Poco importava che non fosse veramente la mia storia.

Non so cos’è che è andato storto, il giorno del mio ultimo esame. Indossavo un vestito bello, un filo di mascara; la mia amica Nina, con cui avevo condiviso telematiche maratone notturne e angosce e gioie e angoscie di nuovo, che quelle non finiscono mai, era lì al mio fianco, forte come sempre. Per una volta, avevo finito il programma di studio in tempo. Quindi io davvero non so cos’è che è andato storto, forse non ero preparata come credevo, l’assistente forse mi aveva preso di punta, il professore non mi ha fatto un’ultima domanda che magari avrebbe sollevato il voto. Mi sono alzata, ingoiando le lacrime, sono corsa fuori dall’aula e ho strappato il libro su cui avevo studiato. Ho sparpagliato i fogli per quattro cestini della spazzatura diversi, come se stessi mandando affanculo la mia carriera universitaria da nord, sud, ovest ed est. Ed è venuta fuori, la me che si nascondeva dietro una lunga lista di bei voti: è venuta fuori la me che piangeva in pubblico, la me peggiore di tutte.

Il voto, il più basso che avessi mai visto, l’ho accettato; non avevo molte altre scelte. Ma non era quella la sconfitta, la sconfitta era aver lasciato che una mia stupida reazione mi definisse di nuovo: ehi, quella con il vestito bello sta piangendo ancora.

Si trattava solo di un accidenti di voto. Non ero io, non era la mia storia, anche se era quella che avrei voluto raccontare di me; era un accidenti di voto. E adesso me lo ricordo solo io, quel giorno là. E adesso, che ho sfogliato i mesi dell’estate e dell’autunno fino ad arrivare ad oggi, oggi che è una nuova stagione, una nuova vita, una nuova città, quel piccolo insignificante episodio mi serve solo per rileggere un capitolo finito, e non valeva i pomeriggi passati a piangere, le strisce nere sulle guance del mascara leggero che avevo messo, e il vestito bello era uno splendido guscio per un niente.

Il giorno del mio ultimo esame è stato un giorno come gli altri, e avrei voluto capirlo già allora.